Sapori granata, a Lecce con gusto: le dritte dell’avvocato gastronomico
Prima trasferta del girone di ritorno della stagione 2013-14 della nostra amata Salernitana in un territorio, quello salentino, davvero ricco di tradizione enogastronomica
Vi consiglio:
Trattoria Nonna Tetti
Piazzetta Regina Maria, 17, Lecce – tel. 0832 246036
Una piccola trattoria, tipicamente leccese, accogliente, dove si puo’ gustare la vera gustosa cucina salentina. Tappa obbligata per chi giunge a Lecce per un pranzo, per chi voglia gustare i sapori genuini e suadenti di una terra che non delude mai. Ottimo rapporto qualità/prezzo.
Antipasto di terra salentina a base di cavoli, fagioli e cipolle. Pasta “ciceri e tria” (“trìa”, voce araba che anticamente stava per “pasta secca”. In realtà tale pietanza – un esempio di archeologia gastronomica della Roma antica di Orazio – fonde le sorprendenti sensazioni saporifere di ceci cottoi con una mirabile combinazione di fettucce di pasta fresca fatte in casa, in parte fritte e in parte bollite).
Orecchiette con le cime di rapa, tagliata di polpo su letto di fave, polpette fritte al sugo salentine, carrè di agnello, carne di cavallo. Vino “Primitivo di Manduria”.
La Cucina salentina e’ una cucina povera per gli ingredienti usati, a partire dalla farina poco raffinata oppure di orzo, meno costosa di quella di grano. Per l’uso di verdure coltivate e selvatiche che la terra salentina può offrire, insieme con gli altri prodotti della terra come le lumache. Per l’impiego di pesce azzurro, oggi rivalutato, ma un tempo l’unico pesce che la popolazione poteva permettersi. Per la scarsità dei piatti a base di carne troppo costosa per i contadini. In effetti, i meno abbienti mangiavano la carne solo la domenica mischiata con molto pane per fare le polpette. Altra preparazione assai povera erano le cricule. La carne di cavallo era diffusa in quanto tali animali erano usati per i lavori nei campi e come mezzo di trasporto e solo quando erano troppo vecchi per lavorare servivano come alimento. Nel periodo pasquale, in cui è tradizione mangiare l’agnello, la popolazione consumava gli scarti dell’animale, cioè le interiora. Questi servivano alla preparazione di piatti che oggi sono diventati ricercatissimi per la loro bontà e l’equilibrio dei sapori. Proprio con le interiora dell’agnello si preparavano (e si preparano) i turcineḍḍi o “gnommareḍḍi o mboti”, che sono involtini dal sapore deciso e prelibato, cotti sulla brace. Altro tradizionale piatto povero della cucina salentina è la “ciceri e tria”. Si tratta di pasta fresca, tipo tagliatella ma senza uovo, in parte fritta in olio extravergine d’oliva e parte lessata unitamente ai ceci, servita appunto insieme ai predetti legumi. Inoltre si usano le spezie della macchia mediterranea per insaporire le preparazioni: la salvia, il rosmarino, il timo, la maggiorana, la menta e l’origano.La fantasia domina soprattutto nei dolci che risentono dell’influenza del mondo orientale (bizantini e arabi). La presenza di ingredienti quali le mandorle, del miele e della cannella è tipica di molte regioni del vicino oriente e delle coste del mar Mediterraneo.La cucina salentina si caratterizza soprattutto per la presenza delle verdure che sono il vero fondamento della dieta tradizionale del Salento. Si troveranno tutte le verdure di stagione: le cime di rapa, vari tipi di cavolo (verze, mùgnuli, ovvero i broccoli, cavolfiori, cavoli cappuccio), le bietole da erbette (in dialetto seuche o gneti), il cardo, i peperoni, le melanzane, i carciofi; tutti i legumi: fagioli, ceci, piselli (come il pisello nano di Zollino, che ha ottenuto recentemente il marchio DE.C.O.) e fave, fresche in primavera e secche durante la stagione invernale. Oltre alle verdure coltivate si raccolgono numerosi tipi di verdure selvatiche: le cicorie selvatiche, il crespigno (localmente chiamato zangune), gli asparagi selvatici, la senape selvatica (in dialetto sanàpi), le cui foglie si consumano cotte ed hanno un sapore simile agli spinaci, i cardi selvatici, le paparìne o paparene, che sono le piante del papavero raccolte prima della fioritura della pianta stessa e spesso cucinate con il lapazio o lapazzu (altra pianta selvatica che cresce spontaneamente nel Salento), i rìpili o finocchietto marino (sono delle piante che crescono sugli scogli bagnati dal mare) e i famosi lampascioni detti anche pampasciuni o ampasciuni o pampasciuli (che sono delle cipolline selvatiche).Il piatto forse più tipico della tradizione contadina è la purea di fave sgusciate con le cicorie selvatiche (fàe nette e foje), sintesi sublime di verdure e legumi.
Le verdure e i legumi sono consumati principalmente con il pane o la pasta (spesso fritti in parte), preferibilmente fatti in casa. Si hanno, quindi, piatti come le orecchiette con le cime di rapa e i cìciri e ṭṛia, che sono i ceci con una pasta assomigliante a delle pappardelle tagliate a rombo (alle volte unite ai cavoli per ottenere la cosiddetta massa, tipica della festa di San Giuseppe il 19 marzo). La tradizione cristiana vorrebbe che la ṭṛia rappresenti appunto i trucioli di legno di San Giuseppe, in realtà con ṭṛia gli arabi indicavano la pasta secca. I ceca mariti o muersi fritti sono dei pezzetti di pane fritti, uniti ai piselli secchi o alla purea di fave.
Poiché il Salento è una penisola, anche il pesce occupa un posto importante, soprattutto in prossimità delle coste. Domina il pesce azzurro, ma si consumano molte varietà di molluschi e crostacei. Fra le ricette, ricordiamo lu purpu alla pignata, che è il polpo cucinato in umido e prende il nome dal contenitore in terracotta usato per cucinarlo, la “pignata” (pignatta). Da segnalare anche la scapèce, tipica di Gallipoli, ma diffusa in tutte e tre le province salentine, che è una preparazione che permette la conservazione del pesce per un lungo periodo: si utilizza del pesce azzurro, in particolare una varietà chiamata pupiḍḍi, che vengono fritti e conservati in un preparato di pane grattugiato, aceto, zafferano, olio extra vergine d’oliva. Diffuso è anche il consumo di baccalà che viene consumato nel periodo invernale anche in abbinamento con la pasta. Fra i frutti di mare molto diffusi sono le cozze (molto diffusa è la cozza tarantina) con cui si prepara la taieddhra. I pesci comunemente consumati hanno spesso nel Salento nomi caratteristici: lutrini, masculari, ope, spicaluri, bufalàchi, scummari, cazzi de re, parasaule, ma anche nomi più comuni come triglie e merluzzi.Capitolo a parte merita il pane, che nel Salento viene ottenuto da farine di grano poco raffinate e presenta, dunque, un colore particolarmente scuro a causa della presenza di crusca. Si utilizza il lievito naturale (detto criscituni o liatu) e la cottura avviene nel forno di pietra, utilizzando fascine di rami di ulivo che danno al pane un profumo particolare. Altri tipi di pane sono i pizzi leccesi (o pizzionguli), di cui una variante sono le scèblasti tipiche della Grecìa Salentina e il pane con le olive (detto anche puccia). Quest’ultimo è realizzato con una farina di grano molto più raffinata rispetto al pane semplice e si ottiene semplicemente aggiungendo le olive leccesine (olive nere di dimensioni particolarmente piccole) all’impasto del pane. I pizzi invece sono ottenuti aggiungendo all’impasto del pane pomodoro, cipolla, zucchine, capperi, olive nere e olio; hanno una forma non ben definita come ci ricorda il nome griko scèblasti che vuol dire, appunto, informe.Fra i prodotti da forno un posto di primissimo piano occupa la frisella o friseḍḍa in dialetto, che è una sorta di pane duro in quanto disidratato, che serviva per essere conservato a lungo in casa. La frisella era preparata con il grano per i ceti più ricchi e con orzo per i ceti meno abbienti, in quanto questo secondo cereale era meno pregiato e quindi meno costoso. La caratteristica principale della frisella è la doppia cottura per cui è possibile definirla anche come un semplice biscotto di farina di grano o orzo. Altrettanto importanti sono i taralli e i tarallini, anch’essi facilmente conservabili per lunghi periodi. Nei forni a legna tradizionali, oltre ai prodotti quantitavamente superiori di pane fresco da taglio e secco da conservazione, venivano prodotti pani speciali con l’aggiunta di olive nere, pezzi di zucca, pomodoro e cipolla [cucuzzata]. Coi fondi dei lavaggi dei contenitori degli impasti si cuoceva un pane di forma molto schiacciata, la pirilla.Prodotto tipico è poi la pittula, che è una frittella di pasta dalla forma più o meno tonda. Le pittule si preparano tradizionalmente nel periodo natalizio, alla vigilia della festa dell’Immacolata (8 dicembre) e di Natale. Nella preparazione delle pittule si possono aggiungere altri ingredienti come acciughe sotto sale, le cime di rapa, il cavolfiore o piccoli pezzi di baccalà. Per Pasqua si prepara la puḍḍica che è un tarallo dolce o salato (a seconda delle versioni) e comunque molto aromatizzato nel cui impasto si metteva un uovo sodo. Una variante con più uova soda è detta puḍḍicastru, in quanto la sua forma ricorda una fortificazione (castrum). Sempre nel periodo pasquale si preparano delle polpettine con la mollica del pane raffermo e altri ingredienti dette cocule.Tipica del Salento è anche la focaccia di patate ripiena, la Pitta, di cui esistono diverse varianti.I dolci salentini presentano una grande varietà. Regina tra i dolci del Salento è la pasta di mandorla che è ottenuta dalla macinazione di mandorle sgusciate e zucchero. Essa assume forme diverse a seconda del periodo dell’anno: nel periodo natalizio viene modellata a forma di pesce (un antico simbolo cristiano che rappresenta il Cristo) e nel periodo pasquale a forma di agnello (anch’esso simbolo del Cristo pasquale). In entrambi i casi la forma di pasta di mandorla viene riempita con marmellata, che tipicamente è la cotognata (marmellata di mele cotogne) oppure la marmellata d’uva locale di varietà negroamaro detta mostarda.
Satolli ma pienamente soddisfatti, siamo pronti a correre allo Stadio Via Del Mare (33.000 spettatori – via del Mare) per tifare Salernitana
A cura dell’avvocato gastronomico Andrea Criscuolo
Seguici!